OSSERVAZIONI ALLA PROPOSTA DI LEGGE REGIONE TOSCANA IN MATERIA DI
DEMANIO COLLETTIVO CIVICO E DIRITTI DI USO CIVICO ALLEGATO TECNICO
L’osservazione preliminare che si impone nei confronti del disegno di legge
della regione Toscana attiene all’aspetto della vantata
titolarità della competenza legislativa regionale, pretesa che condiziona la legittimità di quelle disposizioni della Proposta
di iniziativa della Giunta Regionale che mirano a modificare enti ed istituti di rilievo costituzionale,
disciplinati dalla Legge dello Stato. È opinione condivisa
da autorevoli studiosi
che i principi fondamentali della Legge dello
Stato n.
1766/1927
siano inderogabili per quanto riguarda
il regime giuridico della proprietà collettiva di uso civico, in quanto la natura di questa normativa
è, per l’appunto, di rilievo costituzionale:
l’art.43 della Costituzione introduce una terza forma
di
appartenenza
dei
beni che intanto
è collettiva, perché riferita ad una comunità
di utenti, ma è anche indipendente
dal titolo proprietario
pubblico e privato. Una delle tante conferme
della suddetta tesi è riscontrabile
nel Trattato “Natura Costituzionale
degli Usi Civici” di GIUSEPPE DI GENIO (Giappichelli Editore).
Si deve pertanto dissentire in merito
all’affermazione,
contenuta nella Relazione
Illustrativa al Progetto di Legge, secondo cui “la materia è ascrivibile alla potestà legislativa
residuale delle regioni ai sensi
del comma quarto dell’art. 117 della Costituzione.”
È pur vero che con l’attuazione dell’ordinamento regionale, che ebbe
luogo con la legislazione
delegata sul decentramento amministrativo
degli anni 70 (D.P.R. n. 11/1972 e D.P.R.
n. 616/1977) le funzioni amministrative
in materia di usi civici (che la Legge del 1927 aveva assegnato ai Commissari per la liquidazione degli usi civici ed al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste)
sono state attribuite alle Regioni per effetto del trasferimento alle stesse delle competenze nella
materia dell’ “agricoltura e foreste” (comprensivo
dell’aspetto gestionale degli usi civici).
Nessuna obiezione, dunque,
in ordine alla competenza legislativa regionale per
la regolamentazione dell’esercizio delle funzioni amministrative in materia ed in particolare per la disciplina del
funzionamento degli enti di gestione:
Comuni, Associazioni Agrarie, Amministrazioni
separate (frazionali) dei beni di uso civico. Al contrario,
si deve dissentire in
merito alla pretesa, proclamata
dal Legislatore regionale e messa in atto con la redazione del progetto di intervento legislativo, di abrogare e modificare gli ordinamenti e gli istituti
delineati dalla legge statale, che sono considerati di
rango e portata costituzionale.
Si rammenta,
infatti, che secondo l’orientamento oramai pacifico della dottrina e della
giurisprudenza, la potestà
legislativa della Regione nella materia in questione trova un limite
insuperabile sia nella riconosciuta
valenza ambientale e paesaggistica, attribuita
alle terre di uso
civico (dalla Legge Galasso del 1985 e dal Codice dei beni Culturali e del Paesaggio D. Lgs. n. 42
del 2004- confermata dalla Corte Costituzionale con Sentenza 10 Maggio 1995 n.
156), ma soprattutto nel fatto che la Legge del 1927 ed il Regolamento di attuazione del 1928 disciplinano
istituti che attengono alla materia dell’“ordinamento civile”, la cui disciplina spetta alla legislazione esclusiva dello
Stato, secondo quanto decretato
dall’art. 117, comma secondo, lettera “l” della Costituzione della Repubblica Italiana.
Stante quanto premesso, sembra opportuno
accogliere l’ammonimento
di qualificati giuristi e studiosi, i quali consigliano di mantenere i principi e gli istituti
tradizionali che contraddistinguono lo speciale regime della proprietà collettiva di demanio civico, limitando l’intervento legislativo ad una opportuna regolamentazione delle funzioni amministrative esercitate dalla Giunta regionale
e dagli enti di gestione previsti
dalla legge statale.
Tra le tante, si cita la significativa ed autorevole opinione del Prof. PAOLO GROSSI, giudice
costituzionale, ma soprattutto giurista e storico del diritto che molto ha dedicato allo studio di quelle
forme collettive di appropriazione fondiaria che lo stesso,
richiamando una citazione di Carlo
Cattaneo, ha definito “Un altro modo
di possedere”.
In ogni occasione
nella quale il giurista è stato invitato ad esprimere il proprio
parere sui progetti
di legge statali e regionali che da decenni si susseguono, lo stesso ha sempre coerentemente esortato i proponenti a rispettare
la proprietà collettiva così come tramandata fino ad oggi per “consuetudini immemorabili sedimentate
nella lunga durata ed espressione
fedele di esperienze plurisecolari.”
Nell’intervento al Convegno “Demani Civici e risorse ambientali”
organizzato nel 1991 a Viareggio
dall’ associazione “Centro Cervati di Seravezza”, il Prof. Paolo Grossi così introduceva la propria Relazione:
“L'amico Natoli si domandava
un momento fa se sussistono ancora in Italia degli usi civici. Certamente non ne resterà traccia, se gli sciagurati
progetti di legge, che il nostro Parlamento sta custodendo gelosamente nei suoi scrigni, diventeranno legge dello Stato. Sappiatelo: ho accettato di
partecipare a questo Convegno anche per un senso di sgomento, profondo
sgomento, che la consultazione di molti dei progetti
di legge ha suscitato in me, e come giurista, e come storico del diritto. Come giurista, per la
insipienza tecnico-giuridica di cui
sono infarciti; come storico del
diritto per la incultura clamorosa che dimostrano.
Ho purtroppo l'impressione che questi progetti siano l'ultima di una serie di testimonianze di assoluta incomprensione
verso il problema e la realtà delle proprietà collettive in Italia, e che ancora oggi,
anno 1991, noi siamo di fronte a un
procedimento psicologicamente identico, almeno nella psicologia del
legislatore, a quei procedimenti legislativi di cui è costellata la storia giuridica dell'Ottocento italiano.” (si veda pagina 5 degli Atti del Convegno pubblicati da Jovene Editore 1993 ).
Tale convincimento è stato più volte ribadito
dal Prof. Grossi,
come nell’Intervento al Convegno
“Aspetti
Storico-giuridici degli usi civici” tenutosi a Firenze,
presso l’Accademia dei Georgofili, il
30 Giugno del 2005:
“La
nostra è una materia che mal sopporta l’invadenza del Legislatore odierno. Si riduca, dunque, al minimo l’inteventismo
legislativo”, e riprendendo l’argomento in
occasione di altra giornata di Studi, a Porretta Terme, sempre nell’anno 2005, allorché l’insigne giurista fiorentino ha fatto ammonimento
ai legislatori: “
“Dobbiamo temere il legislatore, sia nazionale, sia regionale, giacché
è stato sempre portatore di inique incomprensioni. Ricordo che, anni fa, parlando a Trento nel Centro diretto da Nervi e
avendo di fronte autorevoli parlamentari ed esponenti della Regione
e delle Province Autonome di Trento
e di Bolzano, io ebbi la sacrosanta sfrontatezza di affermare: a Voi legislatori io chiedo su
questo tema e gli assetti agrarii collettivi una sola legge formata da un solo articolo; e in questo articolo deve esserci
una secca previsione, l’unica rispettosa della loro ricchezza
storica: Stato, Regione, Province Autonome, per la loro regolamentazione,
rinviano alla disciplina delle consuetudini immemorabili sedimentate nella lunga durata ed espressione fedele di esperienze
plurisecolari.
Guai se il legislatore si impiccia di
queste realtà storiche, magari pretendendo di misurarle con i suoi metri centralistici, il metro – per esempio
– dell’illuminismo giuridico
e del Codice civile, fondati
su una tradizione, quale quella
romana e romanistica, imperniata
sulla nozione di proprietà individuale. Vi accennava, giustamente, Maire-Vigueur nella sua Relazione introduttiva. Fu la
visione falsante che ebbe un grande Principe settecentesco, il nostro intelligente e coltissimo
granduca PietroLeopoldo, di cui ci ha parlato Vivoli con tanta acutezza. Qui siamo, invece,
di fronte a ‘un altro modo di possedere’, a un canale – modesto ma
originale e originario – che ha scorso appartato e diverso accanto al grande canale del diritto ufficiale degli Stati. Di questa diversità ci si deve render conto prima di sancire spicciative e ingiustificate liquidazioni. In una
civiltà,
quale la nostra,
così sensibile al rispetto delle
diversità, deve esserci posto anche per il
rispetto
che a noi preme.”
Ebbene, non sembra che l’attuale
proposta di legge regionale – che pure è stata preceduta da un iter
di consultazioni e da appositi
Convegni e Seminari organizzati dalla Giunta Regionale Toscana
(Giornata di studio: “Gli usi civici oggi” Accademia
dei Georgofili Firenze 30.06.2005;
Seminario:
“I Beni Civici” Firenze 29 Giugno
2012 per la presentazione del progetto di legge in questione)
– abbia recepito le raccomandazioni e gli insegnamenti del Prof. Paolo Grossi.
Al contrario, le esortazioni dell’insigne giurista sono state ancora una
volta disattese dal Legislatore Toscano che – nonostante le osservazioni già
presentate in ordine alla dubbia
legittimità di alcune disposizioni del disegno di legge – dimostra di non prendere in seria considerazione la possibilità
che l’intento di travalicare, nella materia della proprietà collettiva di uso civico, i limiti imposti dalla Costituzione e dalla
Legge ordinaria dello
Stato, esponga l'operato dell'Ente Regionale al vaglio dei Giudici della Corte Costituzionale, come già accaduto per altri casi in
cui la Regione ha preteso di legiferare in materia senza tenere
conto del corretto assetto della ripartizione di competenze tra
Stato e Regioni.
Così è avvenuto
di recente con la decisione assunta in data
04.10.2013 dal Consiglio dei Ministri di
impugnare innanzi alla Corte Costituzionale alcune norme della
Legge Regione Sardegna n. 19/2013, in tema
di demanio civico.
Per un resoconto
più dettagliato della vicenda, si rinvia
all'articolo pubblicato sul sito web “Gruppo
di Intervento Giuridico onlus” (All. 1), da cui si apprende come il tentativo di rinnovare il “sacco
dei demani civici” venga attuato dalla Regione Autonoma della
Sardegna con l'emanazione di una norma del tutto illegittima
e palesemente incostituzionale
(art. 1) che pretenderebbe di introdurre, così come quella analoga della Regione Toscana, la
sdemanializzazione di fatto delle terre di uso civico.
***
Entrando nell’esame specifico dell’articolato proposto dalla Regione Toscana, si nota
immediatamente una palese contraddizione tra il contenuto
dei due commi di cui si compone l’Art.
1,
che intende definire l’oggetto della legge.
Mentre al comma 1,
il legislatore regionale sembra voler rassicurare che La legge
si limita – come
pienamente legittimo – ad esercitare le competenze della Regione in materia, mediante l'attuazione
e regolamentazione delle funzioni
amministrative ad essa attribuite (“La presente
legge disciplina l’esercizio delle funzioni amministrative in
materia di demanio collettivo civico e
diritti di uso
civico”), al secondo comma
affianca una disposizione certamente
incostituzionale, perché viola
la competenza legislativa
statale, peraltro con la pretesa di abrogare istituti
e procedimenti disciplinati dalla Legge del 1927 e relativo Regolamento, e con il risultato di avallare indiscriminate sanatorie di occupazioni abusive di “beni
immobili
originariamente civici”,
mediante una sdemanializzazione di fatto.
“ART. 1 comma 2° - “La presente
legge non si applica ai beni
immobili originariamente civici che hanno perso
definitivamente e irreversibilmente l’antica
destinazione civica, i quali acquisita natura privata, siano conferiti
dai proprietari in comunione
o in condominio.”
Dall’interpretazione della disposizione di cui al secondo
comma, art. 1, dell’articolato toscano, sembrerebbe di capire che qualora l’originaria
destinazione civica sia
di fatto venuta meno- in quanto la terra collettiva non ha più
natura boschiva o agricola (pascolo
e coltivo), essendo attualmente utilizzata per fini produttivi o edificatori che ne hanno determinato l’irreversibile
trasformazione – il bene immobile perda l’antica qualitas civica e venga ad acquisire, a tutti gli effetti, la natura di proprietà
privata.
In altri termini, si verrebbe a configurare una sdemanializzazione di fatto della terra
“originariamente civica” e la traslazione di questa nel regime privatistico (allodio),
ogni qual volta fosse accertato che,
in conseguenza dell'intervenuta
trasformazione fisica della stessa è venuta meno, in modo irreversibile, la destinazione civica
per l’impossibilità di esercitare gli usi collettivi. Tutto
questo in barba all'osservanza delle rigorose procedure prescritte dalla
legge statale per la legittimazione delle abusive occupazioni dei beni di uso civico e per l'eccezionale
previsione del mutamento di destinazione.
Se tale fosse la ratio
della norma, si porrebbe una
questione di contrasto con il dettato della Legge n.
1766 del 1927, la quale ha codificato il principio del necessario accertamento amministrativo ed (eventualmente) giurisdizionale della natura delle terre di origine comune
occupate da privati. Le disposizioni di cui all’art. 9 della Legge
n.1766 del 1927 e 25 del Regolamento
n. 332 del 1928 stabiliscono,infatti, che sia da qualificare occupatore abusivo
di terre di uso civico chiunque,
trovandosi nel possesso di terre di origine comune, non sia in grado di produrre a giustificazione del suo possesso un titolo, ovvero questo non sia riconosciuto valido a norma delle leggi vigenti in ciascuna regione all’epoca dell’atto
di conversione del bene demaniale civico
in allodio (Cass.
18
Marzo 1949 n.601 in Giur. Cass. Civ. 1949, II, 142).
Le procedure prescritte dalla Legge dello
Stato per la sistemazione dei
beni civici non possono essere vanificate né derogate dalla legge regionale, cosicché nell'ipotesi in cui si siano verificate
occupazioni di terre, per le quali sussista la presunzione
che si tratti di beni “originariamente civici”, si impone
l'avvio del procedimento amministrativo previsto dagli
artt. 9 e 10 della Legge 1766/1927, che si conclude o con il provvedimento di Legittimazione ovvero con quello della Reintegra, istituto che comporta la restituzione delle
terre “al Comune,
all'associazione o alla frazione del Comune, a qualunque epoca l'occupazione di esse rimonti”.
Dunque, mentre l’esito del procedimento
di verifica demaniale delle terre
civiche occupate è normalmente quello
del provvedimento di reintegra,
a tale regola
fa eccezione l’istituto della
Legittimazione di cui all’art. 9 della Legge
1766/1927 (che è parte essenziale di quel corpo giuridico definito dal Prof. Paolo Grossi
come “consuetudini immemorabili sedimentate nella
lunga durata ed espressione fedele di
esperienze plurisecolari”),
la quale consente
– per l’appunto, eccezionalmente – di regolarizzare le occupazioni abusive ultradecennali di terreni di demanio civico di natura agricola,
quando siano stati migliorati in modo sostanziale e permanente da parte dell’occupante e non
interrompano la continuità del demanio civico.
Pertanto, nella vigenza
della Legge n. 1766 del 1927, non c’è spazio per una sdemanializzazione di fatto “di beni immobili
originariamente civici”, che è assolutamente esclusa
con riguardo allo speciale regime della
proprietà collettiva,
secondo quanto
chiarito ripetutamente
dalla Corte Suprema (da ultimo con la sentenza del 28 Settembre 2011 n. 19792) e dalla recente
Sentenza della Corte di Appello di Roma,
Sezione Speciale Usi civici, in data 5 Giugno 2013.
In conclusione, l’assunto
secondo cui sarebbero da qualificare di “natura privata” le terre che per qualsiasi storico evento
o circostanza avessero “perso definitivamente e irreversibilmente l’antica destinazione civica”,
non trova fondamento e sostegno nei principi
e nelle norme che informano lo speciale regime del demanio civico: non è certamente condivisibile
che lo stato di fatto del
mutamento di destinazione sia di per sé sufficiente a determinare la sdemanializzazione
del bene
civico. Difatti, anche qualora – per effetto
dell’abusiva occupazione – si sia determinata in modo
irreversibile una trasformazione della terra collettiva di demanio civico,
mediante il consolidamento
dell’impossibilità fattuale
di un utilizzo della stessa secondo
l’uso civico cui la stessa era originariamente destinata,
non si può
configurare una sdemanializzazione o
“sclassificazione”, senza che la qualità allodiale
delle terre originariamente civiche
sia stata accertata con sentenza
passata in giudicato ovvero sia stato
perfezionato il procedimento amministrativo di legittimazione delle abusive occupazioni di beni civici, disciplinato dagli artt. 9 e 10 della Legge n. 1766 del 1927. È importate ribadire che, fino a quando resteranno in vigore i capisaldi del diritto demaniale codificati nella più volte richiamata Legge
dello Stato, tutte le occupazioni di terre originariamente
civiche dovranno sottostare al vaglio, caso per caso, del
procedimento amministrativo di verifica demaniale e/o di quello giurisdizionale. Il principio appena esposto é, peraltro, unanimemente
recepito dai giudici che, a vario titolo, si sono occupati
della questione. Tra le numerose pronunce in
tal senso, si ritiene opportuno segnalare
la recente Sentenza del T.A.R. Lazio del 07.02. 2013 n.
1369, allegata in forma integrale alle presenti annotazioni (All. 2) di cui si riporta un breve estratto: “Come ripetutamente affermato
in giurisprudenza, i beni
gravati da usi civici debbono
essere, infatti, assimilati ai beni demaniali. La particolarità del regime cui sono sottoposti i beni
in esame determina che, al di fuori dei procedimenti
di liquidazione dell'uso civico e prima del loro formale
completamento, la preminenza del pubblico
interesse che ha impresso
al bene immobile il vincolo dell'uso civico, ne vieta ogni circolazione (cfr., in tal senso, Cass. Civ.,
Sez. III, 28 settembre 2011, n. 19792; T.R.G.A.,
17 ottobre 2005 n. 284)
e, pertanto, ogni atto di cessione tra privati di un tale
bene – pur se riconosciuto come intervenuto – é affetto
da nullità (Cass. Civ., Sez. III, 3 febbraio
2004 n. 1940). In altre parole,
in materia di terreni soggetti ad uso civico non possono
costituirsi proprietà private
senza un titolo proveniente dall'autorità che ha il potere di disporne
(principio questo cui si riconnette, tra l'altro, anche l’irrilevanza di stati di prolungato possesso
– Trib. Cassino, 7 aprile
2010; App. Roma, Sez. IV, 8 novembre
2006)”.
In conclusione, nonostante la progressiva tendenza della Legislazione regionale ad attenuare i vincoli derivanti dal regime speciale
dettato dalla Legge 1766 del 1927, con
tentativi di agevolare le procedure di liquidazione dei beni civici, la
Suprema Corte continua a ribadire
che “non può ammettersi una c.d. sdemanializzazione di fatto.” (Cass. Sez. 3 Civ., Sent. 28 Settembre 2011 n.
19792).
Preoccupa
che
agli
amministratori della Regione
Toscana, così attenti
alla
tutela
dei beni ambientali,
paesaggistici e culturali, nonché
pervicaci difensori dei diritti
delle comunità locali, sia sfuggito come la norma, di cui al secondo
comma dell’art. 1 del progetto
di Legge, sia in palese
contrasto con i principi della legge nazionale e si presti ad incentivare lo smantellamento di fatto di
patrimoni collettivi di rilevante
interesse storico-giuridico, particolarmente “appetibili” per il loro valore commerciale. È notorio che sono in atto da decenni, in Toscana, vertenze promosse dalle collettività proprietarie per la rivendica delle terre civiche
usurpate da privati
occupatori per destinarle ad attività industriali (come sulle Apuane,
per l’escavazione del marmo)
o edilizie. Sovente si tratta di aree di rilevante
valore naturale e paesaggistico, come quelle
ricomprese in Parchi montani ed isolani, e non mancano abusi posti in essere dalla pubblica amministrazione con il pretesto di perseguire l’interesse
pubblico. Classico è poi il conflitto fra l’ente Comune, che pretende di essere proprietario a titolo patrimoniale della
terra collettiva, e le comunità frazionali
che sono le dirette eredi delle originarie comunità
di villaggio, che ab antiquo possedevano
i boschi, pascoli e coltivi. Queste vicende sono frutto della
tendenza liquidatoria delle
proprietà collettive che
negli ultimi decenni si è progressivamente accentuata per effetto del “nuovo
dinamismo economico,connesso alla rapida espansione urbana
e allo sviluppo industriale”... che
“ valorizza sempre nuove fasce di
territorio e ne modifica profondamente la destinazione d’uso in chiave edificatoria” e di produzione
intensiva (F. CARLETTI,
Attualità del regime demaniale e prospettive
di riforma, Relazione al Convegno di Viareggio
del 1991). Ma un ulteriore
aspetto di ordine politico-economico ha contribuito, più recentemente, all’accelerazione della spinta liquidatoria: l’interesse delle amministrazioni comunali
ad incamerare i beni civici delle
collettività, per poterne disporre quali beni patrimoniali
dell'ente da alienare senza vincoli per ripianare
i bilanci deficitari.
È convinzione diffusa
che gli interventi
legislativi in materia della Toscana e della Sardegna siano mossi da un comune disegno
politico, cosicché la sorte dell’uno possa in qualche
misura condizionare la
riuscita dell’altro.
I termini usati nell’art.
3 della Legge Regione Sardegna n. 19/2013 – etichettata dal Gruppo di intervento Giuridico
e da quello degli Amici della terra come il
“Nuovo editto delle chiudende”, sono analoghi a quelli della
criticata disposizione del progetto toscano: “Costituiscono oggetto di sclassificazione del regime demaniale civico in
sede di ricognizione generale e straordinaria”… “i casi in cui i terreni
sottoposti ad uso civico abbiano
perso la destinazione funzionale
originaria di terreni pascolativi o
boschivi ovvero non sia riscontrabile né documentabile la originaria
sussistenza del vincolo
demaniale.”
Il contrasto
della norma sarda con il regime
della legge n. 1776/1927 è aggravato ulteriormente dal fatto che la stessa, addirittura, inverte l’onere
della prova della qualitas
soli, così come regolato nei procedimenti disciplinati
dalla normativa statale: infatti, nei giudizi di rivendica promossi dall’ente
di imputazione della collettività per il recupero del bene usurpato, vige il principio
secondo cui l’occupatore ha l’onere
di provare il suo possesso con titolo valido ed idoneo,
non avendo valore
probatorio il solo fatto materiale invocato a difesa (possideo quia possideo).
I due disegni di legge probabilmente si propongono di affrontare e risolvere in modo originale (discostandosi dalle collaudate regole che hanno consentito
nei secoli la conservazione del demanio civico) quelle situazioni nelle quali le terre civiche abbiano perduto l’originaria conformazione fisica e la destinazione funzionale agro-silvo pastorale, tuttavia con il ricorso allo strumento della c.d. “sdemanializzazione” di fatto ottengono
il risultato di facilitare
la privatizzazione ex lege e
la messa in commercio dei beni civici,
secondo quella tendenza liquidatoria delle comunità storiche e delle
risalenti forme di originaria apprensione e gestione collettiva delle terre, bollata con parole di forte
biasimo dal Prof. Paolo Grossi.
L’eventuale “sanatoria” delle aree di
fatto sottratte all’uso
collettivo civico non può essere rimessa
sic et simpliciter all'istanza dell’occupatore ed alla decisione del funzionario regionale
di turno, ma
si deve prevedere, in conformità alla legislazione statale, una
procedura di sdemanializzazione ad
iniziativa dell’ente di imputazione che ne autorizzi
l’alienazione.
Secondo un suggerimento, che l’ente regionale
dovrebbe prendere in considerazione
al fine di salvaguardare per le
future generazioni una
sufficiente estensione
di territori di uso civico, il progetto di legge potrebbe prevedere
un meccanismo di compensazione “in natura” della perdita
subita dalle collettività per effetto
delle alienazioni autorizzate ex art. 12 della Legge 1766/1927:
alle stesse potrebbero essere
attribuite
terre private da conferire
nel regime giuridico del demanio civico in sostituzione dei suoli venduti sul presupposto delle loro inidoneità ad essere destinati
all’esercizio degli usi collettivi
(fondi trasformati da insediamenti residenziali e produttivi ovvero occupati da opere pubbliche).
Per una più puntuale rassegna della giurisprudenza, si ritiene utile allegare la Sentenza del T.A.R.
Campania del 06.02. 2012 n. 174 in forma integrale (All. 3), che rende
corretta interpretazione della normativa statale relativa alle alienazioni dei beni di uso civico (art. 12 Legge 1766/1927), e la Sentenza 26.03.2013 n. 1698 del Consiglio di Stato (All. 4), in tema di “mutamento di
destinazione”, con un breve ma significativo commento di Mezzacapo Salvatore (All. 5).
***
Stante l’attuale operatività
dei principi sopra esposti,
è auspicabile che il progetto di legge Giunta Regionale Toscana sia circoscritto alla regolamentare delle funzioni in materia, alla stessa trasferite, così come ha fatto, a suo tempo, la Regione Abruzzo che ha limitato
la normazione all’esercizio dei propri poteri:
“Esercizio delle funzioni amministrative
in materia di usi civici e di gestione delle terre civiche” Le funzioni
amministrative trasferite con D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, e D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, relative alla liquidazione degli usi civici, allo scioglimento delle promiscuità, alla verifica
delle
occupazioni
e
alla
destinazione
delle
terre
provenienti da affrancazioni, e le altre
contemplate dalla L. 16 Giugno 1927, n. 1766, dal regolamento approvato con Regio Decreto 26
Febbraio
1928, n. 332, dalla Legge 10 Luglio 1930, n. 1078, dal regolamento approvato con Regio Decreto 15 novembre 1925, n.
2180, dalla Legge 16 marzo 1931, n.
377, sono esercitate dalla Regione secondo le disposizioni della presente Legge. Per quanto in questa non previsto, si richiamano le disposizioni della
vigente legislazione
statale
in
materia. Le
funzioni amministrative di cui al
precedente comma sono esercitate
dalla Giunta Regionale.”
Ancora prima, con Legge 17 Marzo 1981 n. 11, la Regione Campania si era data la Legge sugli usi
civici, all’epoca – per fortuna – ispirata da veri cultori della materia, primo fra tutti, l’Avv. Cervati.
Ebbene,
anche l’articolato di
questa legge si limita
a disciplinare le funzioni
amministrative trasferite alla Regione, guardandosi bene dall’invadere le prerogative
statali, come del resto hanno
fatto altre regioni che si sono dotate di testi organici, curando soprattutto l’aspetto dell’organizzazione, quello di sostegno economico degli enti di gestione, nonché la valenza
e difesa naturalistica ed ambientale delle terre civiche.
***
Ulteriore dissenso deve essere espresso con riferimento al contenuto degli Artt. 15 e 16 del
Progetto
di legge.
“ART.
15 Ente Gestore
“L'ente gestore
amministra i beni civici degli utenti residenti
nel territorio frazionale o
nell'intero territorio comunale ed
ha personalità giuridica di diritto privato.
ART.
16 Statuto
e personalità giuridica di diritto
privato dell’ente gestore.”
ATTRIBUZIONE DELLA
PERSONALITÀ GIURIDICA DI DIRITTO PRIVATO
L'art. 1
della Legge 16
Giugno 1927 n.
1766, fissa l'ambito
di applicazione delle
proprie disposizioni con riferimento alle figure organizzative di appartenenza delle terre collettive,
individuandole nel comune, nella frazione di
comune, nelle
università agrarie
e nelle altre associazioni agrarie comunque denominate.
Le tre forme organizzative di rappresentanza,amministrazione e gestione dei beni di
uso civico, previste dalla vigente normativa,
sono caratterizzate da un comune profilo che è quello del patrimonio collettivo indisponibile e soggetto a speciale regime pubblicistico, comprendente una somma di
poteri pubblici finalizzati non solo al governo
e controllo dei beni, ma anche degli
stessi organismi di gestione pur nella garanzia dell’autonomia statutaria
ad essi riconosciuta. (FULCINITI
- I beni di uso civico).
La
natura
pubblica
delle
Associazioni Agrarie
è stata riconfermata, anche dopo l’infelice intervento legislativo di cui alla Legge n. 97 del 1994 sulla Montagna, che ha erroneamente accomunato
due realtà completamente diverse: le comunioni familiari
dell’Arco Alpino (per le quali l’attribuzione della personalità di diritto privato poteva
trovare più valide giustificazioni) con le Associazioni agrarie dei beni di uso civico delineate
dalla Legge 4 Agosto 1894 n. 397, che hanno
un regime giuridico pubblicistico (FULCINITI op.cit. pag. 254).
La pretesa di attribuire anche a questi ultimi enti di
imputazione la personalità giuridica di diritto
privato è stata da subito criticata dalla dottrina e definitivamente disattesa dalla Giurisprudenza della Suprema Corte
la quale ha ripetutamente affermato che le Università Agrarie sono Enti
Pubblici non economici (Cass. Civ. Sez. Unite, 13 Maggio 1980 n. 3135; 9 Novembre 1985 n.
5474 e più recentemente: Corte di Cassazione, Sezione tributaria civile, Sentenza
7 Febbraio 2013
n. 2873, che – sul presupposto della natura di ente
pubblico non economico riconosciuta alla Associazione Agraria – ha stabilito che la stessa è tenuta ad osservare i principi in materia di
contabilità pubblica).
Le stesse considerazioni valgono
per la terza tipologia
di ente, prevista dalla legge per la gestione
dei beni di uso civico.
Allorché risulta accertato che
i beni collettivi
appartenevano originariamente
alla Comunità
divenuta frazione (art. 26, comma 2), la normativa
vigente prescrive la diretta e separata (a
profitto dei soli abitanti della
frazione) amministrazione
frazionale delle terre civiche.
La legge statale n. 1766 del 1927 considera dunque la Frazione come dotata di una propria soggettività giuridica
distinta dal Comune, cosicché
il quadro normativo suggerisce di qualificare
l’ASBUC come un organismo di
diritto pubblico.
L’ASBUC, quale struttura organizzativa appositamente costituita per l’amministrazione dei beni
di proprietà collettiva della generalità dei residenti nel territorio frazionale, è certamente
dotata
di personalità giuridica: l’assunto
non può dar luogo ad interpretazioni contrastanti, in quanto è
fondato sulla espressa previsione del diritto positivo. Peraltro, secondo l'opinione
generale della Dottrina (Cerulli Irelli,
Fulciniti)
detta
Amministrazione separata é indubbiamente dotata di
soggettività come
"centro di imputazione dei diritti e degli interessi
frazionali”.
Nonostante le lacune, la frammentarietà
e la pluralità degli atti normativi
da cui si ricava la vigente disciplina delle Amministrazioni separate (che richiederebbe una regolamentazione
unitaria ed aggiornata alle attuali esigenze delle ASBUC, ma con legge statale), si deve ritenere condivisibile
la tesi della natura pubblica, sostenuta
dalla GIURISPRUDENZA prevalente e, in particolare, dai Commissari agli Usi Civici: così
l’ex Commissario agli usi
civici di Bologna Dr. RICCIOTTI, che a sostegno di questo orientamento cita la Sentenza del Consiglio di Stato Sez. II, 5.11.1964
n.
982. Conforme il parere del 27.11.1995, nel quale il Commissariato Usi Civici del Friuli qualifica
le Amministrazioni separate come enti
pubblici
minori, richiamando
la
Sentenza
della
Cass.
17.03.1948 n. 423, pubblicata in Foro it. 1949, I,
721. Anche la Direzione Centrale Pianificazione e Autonomie Locali della Regione
Friuli, ai fini di un finanziamento
da parte della Cassa depositi
e presiti si è espressa per la natura pubblica della Amministrazioni
frazionali.
In DOTTRINA è
assolutamente prevalente la tesi che propende per il riconoscimento
della personalità
di diritto pubblico degli enti di gestione,
comprese
le ASBUC. Omettendo la rassegna delle opinioni, riteniamo sufficiente richiamare, ex multis, quelle di due indiscusse autorità
in materia: gli Avv.ti GUIDO CERVATI ed ATHENA LORIZIO.
In un saggio a commento della Legge in materia di usi civici della Campania del 1981, di cui si
è
più sopra riferito, l'Avv. CERVATI ha chiarito le ragioni per le quali il legislatore italiano, nel disciplinare
la complessa e variegata
realtà dei diritti dominicali delle
collettività, abbia volutamente affermato il “sistema della pubblicizzazione di destinazioni,procedimenti ed organi ad essi preposti”. Conforme l'orientamento dell'Avv.
LORIZIO, ribadito anche in un recente parere pubblicato sul sito “demaniocivico.it” dell'Associazione Aproduc,
in risposta allo specifico quesito rivolto da un’ASBUC del Piemonte: “Concordo
con quanto osserva l’Agenzia delle
Entrate sulla natura giuridica pubblica delle Asbuc”.
La problematica è presa in esame anche da
Luciana FULCINITI nel proprio trattato “I
Beni di uso civico”. La stessa si
schiera per la natura pubblica delle Amministrazioni
Separate, sostenendo che “depone a favore dell’organismo di diritto pubblico: il sistema di scelta dei componenti del Comitato Frazionale, che consiste in un procedimento elettorale disciplinato dalla Legge dello Stato n. 278 del 1957 e dal Regolamento Regione
Toscana 7 Marzo 1992 n. 1, quindi pubblicistico teso a garantire la partecipazione democratica e
la più ampia rappresentatività
degli interessi della
frazione in relazione ai beni di uso
civico.
Ulteriore decisivo argomento a favore della natura pubblica si ricava dalla sottoposizione dell’amministrazione
frazionale al potere di controllo regionale,
ai sensi dell’art. 1 D.P.R. n. 616 del 1977, e dal sistema di sorveglianza, che l’art. 64 del Regolamento n° 332 del 1928 attribuisce
al Sindaco del Comune, il quale
avvalendosi dei poteri previsti dalla disposizione “potrà sempre esaminare l'andamento” della gestione dell’Amministrazione frazionale “e rivederne i conti”. È indubitabile che nell’esplicazione
di tale potere di vigilanza il Sindaco del
Comune agisca come
pubblica autorità, non certamente come portatore
di interessi dell’ente comunale, che –come tale–
non può avere ingerenza negli interessi dell’amministrazione separata frazionale”.
Militano a favore dell’organismo di diritto
pubblico ulteriori elementi,
quali la giurisdizione e
competenza funzionale inderogabile
dei
Commissari nonché le procedure
di
evidenza
pubblica. Infatti, se i diritti appartengono alla collettività e l’ASBUC ne ha soltanto
l’amministrazione sotto il controllo della Regione, è evidente che le relative dinamiche procedimentali di gestione non solo
debbano corrispondere all’assetto istituzionale delineato dalla normativa
vigente, ma in particolare debbano conformarsi ai cardini
della pubblicità, imparzialità, trasparenza nonché ai principi
di derivazione comunitaria,
quali quello di concorrenza, parità di trattamento e proporzionalità di cui all’art.
1 della Legge n. 241 del 1990 ( si veda in proposito
pagg. 4 e 5 Sentenza Consiglio di Stato n. 1698 del 2013).
La
contraddizione insita nel progetto
regionale in discussione è palesata dall’incompatibilità della
pretesa, da una parte, di imporre all’ente gestore ASBUC “il riconoscimento di persona giuridica privata” e l’iscrizione nel Registro Regionale, dall’altra, di regolamentare, potenziandolo, il potere
di controllo
sulla gestione dei beni
civici mediante le specifiche disposizioni di cui al Capo III, e
l’introduzione dei Poteri Sostitutivi.
Se, infatti, il riconoscimento della natura pubblica delle ASBUC
consente di esercitare senza alcuna limitazione i poteri di controllo da parte del Sindaco del Comune e della Giunta Regionale
nonché le facoltà di partecipazione alla gestione e il diritto di accesso agli atti da parte dei cives ex art. 23
Legge
n. 241 del 1990 – indispensabili
per garantire
l’effettiva osservanza dei
principi sopra enunciati–, la scelta di attribuire
all’ASBUC la personalità giuridica di diritto privato, si pone in senso diametralmente opposto rispetto al dichiarato intento di disciplinare in modo più stringente ed articolato le potestà pubbliche
di controllo sull’operato dell’ente gestore e di
facilitarne l’accesso ai finanziamenti pubblici.
La rilevanza
pubblica dell’attività svolta dall’ente frazionale di imputazione
delle terre civiche,
direttamente connessa
alla natura e
destinazione pubblica
dei beni amministrati
nonché alla rilevante portata
sociale degli stessi, soggetti – tra
l’altro – alla tutela ambientale e paesaggistica,
male si concilia con la qualificazione
privatistica attribuita dalla
legge regionale al soggetto gestore.
Né l’equivoco in cui già è incorsa la Legge Forestale Toscana del 21 Marzo 2000 n. 39, oppure il riferimento
(non pertinente) alle Nuove disposizioni per le zone montane possono giustificare l’inquadramento della struttura organizzativa in questione nella normativa privatistica, in
contrapposizione all’entità e rilevanza degli aspetti
che contribuiscono ad assimilarla piuttosto
al regime pubblico del Comune
e dell’associazione agraria.
***
Conclusivamente,
si ritiene che il progetto di legge
debba essere assolutamente ripensato,
nelle parti che si propongono di abrogare o modificare
principi ed istituti in materia di ordinamento civile,
che sono riservati alla competenza
esclusiva dello Stato. L'illegittimità costituzionale di norme, quali
quelle sopra censurate, appare
evidente, mentre per altre disposizioni si configura
un conflitto con le
prerogative statali anche in materia di tutela dell'ambiente e di
governo del territorio, seppure per questa, sussista la competenza
concorrente della Regione.
Persino la regolamentazione delle funzioni amministrative di competenza regionale
non va esente da critiche. A titolo di esempio, si deve certamente dissentire sulla scelta di attribuire al Dirigente Regionale poteri discrezionali quali quello di autorizzare il mutamento di destinazione dei beni civici ed il parere per il provvedimento di espropriazione per pubblica
utilità, così come
inopportuna è la previsione di uno Statuto - Tipo
degli enti di gestione, fatto a tavolino con il proposito di negare le autonomie
delle comunità, gli usi e le tradizioni locali.
Infine, per quanto riguarda
le norme sull’accertamento
demaniale e l’istituzione della Banca dati
degli usi civici (artt. 27 e 28), si segnala
l’ulteriore raccomandazione proveniente da tutti gli esperti
della materia affinché sia finalmente promosso
uno studio interdisciplinare delle molteplici realtà
e forme
del collettivismo, storicamente presenti nel
territorio toscano.
Anche per questa finalità,
negli anni ’80, è stata costituita l’associazione Guido Cervati
di Seravezza, che invero, nel primo periodo di attività – avvalendosi della
collaborazione degli enti locali (Comuni e Comunità Montane) e di quello della Giunta e
dell’Ufficio usi civici della Regione
Toscana – ha potuto dare attuazione
ai propri scopi statutari, organizzando
Convegni di rilievo nazionale, quale quello di Viareggio del 1991, e svolgendo interessanti ricerche sulle proprietà collettive delle comunità toscane, secondo la sollecitazione fatta in tal senso dal Prof. Paolo Grossi
nell’occasione di tale Convegno:
“In verità,
quello che
manca
e che porterebbe
molta luce
sulla
natura
di tante
situazioni è l'inventario, il censimento, delle
proprietà collettive esistenti in
Italia, intendendo
per censimento
non qualcosa
di meccanico che facesse conoscere
unicamente nomi, località, statuti attuali, ma che
costituisse il sommario specchio dell'itinerario storico-giuridico
dei vari assetti
collettivi, consentendo
all'indagatore
di risalire alle origini. E' questa
un'opera benemerita che il
Centro Cervati dovrebbe cominciare a
programmare. Opera grossa, poderosa, e probabilmente
non basteranno
le energie
che
stanno intorno al Centro;
l'importante
sarebbe però avviare
subito l'operazione, cominciare a pensarla e costruirla in una articolazione di
molteplici gruppi locali, che possono compiere le
indispensabili ricerche sul campo ed in archivi pubblici e
privati. Non abbiamo una mappa delle
proprietà collettive
italiane, e ne sappiamo
ancora troppo poco, perché abbiamo guardato a questo mondo senza un adeguato spirito scientifico, armati soltanto della sufficienza
di chi si dedica a
collezionare delle curiosità. In
ciò siamo tuttora eredi fedeli dell'Ottocento.” (Pagg. 7 e 8 della Relazione Prof. Paolo Grossi “Il problema storico – giuridico della proprietà
collettiva in Italia”, pubblicato su “I
demani civici e risorse ambientali, Atti del Convegno
Viareggio 5-7 Aprile
1991”, Jovene Editore 1993).
All.1 - Articolo pubblicato sul sito web “Gruppo
di Intervento Giuridico onlus”. All. 2 - Sentenza del T.A.R. Lazio del 07.02.
2013 n. 1369.
All. 3 - Sentenza del T.A.R. Campania
del 06.02. 2012 n. 174.
All. 4 - Sentenza del Consiglio di Stato del 26 Marzo 2013 n.1698. All.5 - Commento alla sentenza di Mezzacapo Salvatore
CENTRO GUIDO CERVATI
SERAVEZZA 14 Ottobre 2013